Sempre più spesso si sente proporre un allontanamento dalla logica della formazione “tradizionale”, a favore di prassi formative denominate talora “attive”, altre volte “partecipative” o ancora in altri modi. E la figura di chi assume la responsabilità di condurre il processo, sembra che non vada più chiamata “docente” o “formatore”, ma di volta in volta si parla di “facilitatore”, di “animatore” o di altre figure ancora. E il luogo sembra non dover più essere l’aula bensì il luogo di lavoro, la barca a vela, il bosco o altri posti ancora. Personalmente ricordo il grande effetto che hanno avuto su di me, sulla mia formazione ed educazione, alcuni docenti che ho potuto seguire in gioventù. Si chiamavano “docenti”, facevano “lezioni”, e in “aula”. Eppure sapevano coinvolgere e portare fuori il meglio dagli allievi, sapevano lasciare il segno senza effetti speciali.

Forse non servono tecniche o metodologie particolari e innovative, serve piuttosto riscoprire quali sono i meccanismi che nella relazione sono in grado di stimolare la produzione di senso all’identità, al gruppo e all’ambiente.

Chi ha detto che una lezione ben fatta sia meno coinvolgente di un role playing o di un business game? Chi ha detto che per generare apertura di possibilità e senso di squadra occorra andare in luoghi diversi dall’aula?

Qualche volta si parla della relazione didattica come se il formatore dovesse sparire; è chiaro che la persona in apprendimento debba essere protagonista; è altrettanto chiaro che l’apprendimento non possa essere “provocato” da un formatore ma che quest’ultimo possa solo (“solo”?) stimolare un processo creativo in cui l’energia e la motivazione sono della persona in apprendimento. Ma credo che in definitiva la relazione debba restare profondamente diadica, e non centrarsi prevalentemente sul partecipante. Altrimenti il rischio è quello di fare una formazione con una forte componente aggregativa ed edonistica, ma priva della possibilità di produrre senso e valore.

Quindi non penso che per innovare nella formazione degli adulti vi possano essere tecniche o metodologie specifiche; c’è bisogno di una formazione tesa allo sviluppo della persona e alla produzione di senso; credo che occorra basare tale formazione, con qualunque metodologia essa venga svolta (includendo dalle lezioni più tradizionali alle metodologie più innovative quali il teatro, l’outdoor, l’e-learning, ecc.), su una relazione didattica che sappia ascoltare, mobilitare energia nella persona e nel gruppo, indirizzare alla scoperta e alla ristrutturazione del senso; un senso che può essere diverso persona per persona, ma figlio di un unico processo sociale. Solo in questo modo la formazione diventa produzione di senso, di benessere, di prestazione.

 

  • Vai all’articolo Apprendimento attivo: 9 consigli per ottenerlo
  • Vai all’articolo Focus sul problema o sulla soluzione?